Classici Bonelli - Di tutti i colori - Martin Mystère 100

 True colors

Quando nell'estate del 1990 esce nelle edicole il centesimo albo della serie regolare di Martin Mystère, il colore è ancora un'assoluta rarità nelle pubblicazioni della SBE. Fino ad allora gli albi allontanatisi dal tradizionale bianco e nero erano stati, a spanne, meno di una decina. Certo, diversi anni prima Sergio aveva mandato in edicola la collana Un Uomo un'Avventura, composta di tutti volumi a colori; quei grandi albi cartonati, inutilmente concupiti e recuperati soltanto molti anni più tardi a causa del prezzo esorbitante per chi allora era appena un ragazzo e leggeva "giornaletti", non avevano però nulla in comune con la tradizione bonelliana, costituita di fumetti seriali e popolari.

Il colore segnava immancabilmente il raggiungimento di un traguardo "centenario" (a parte il caso unico dell'albo di Zagor Indian Circus), era dunque riservato a storie celebrative, ma sin lì non aveva mai prodotto nulla di memorabile: il numero 100 della Collana Rodeo era stata una buona storia, ma non da annoverare tra le migliori della Storia del West, cui apparteneva e che ha dato al fumetto italiano racconti indimenticabili; Supertex, il centesimo albo della serie gigante di Tex è una storia in fondo dignitosa, ma considerato che appartiene al periodo aureo di Tex, nel quale le storie dignitose sono state le peggiori, e sono state poche, anzi davvero molto rare, si può dire che non fosse questo granché. Tutto qui, e pensando che il colore serviva a celebrare e far festa, è un fatto che quegli albi festevoli avessero sempre deluso.

A cambiare le cose fu Alfredo Castelli con Di tutti i colori. Castelli è un intrattenitore superiore al narratore che è - e al suo meglio Alfredo è un narratore eccezionale: per il primo albo celebrativo del suo personaggio fu proprio alle sue migliori risorse di intrattenitore che ricorse per allestire quella che, più che una storia, fu uno spettacolo, ricavandone il brillante capolavoro leggero del primo centinaio di Martin Mystère. 
 
Di tutti i colori è uno spettacolo in senso letterale, per cominciare: Martin e compagnia vengono infatti trascinati dal suo agente ad assistere al numero di un mago, che il nervoso pennello di un Alessandrini praticamente al suo picco, tratteggia mefistofelico come Mister Jinx e altrettanto insinuante. Sguardo sulfureo, colorito eloquio allusivo e scattante, movenze decise e gestualità strafottente, Doctor Spektor, imbonitore e maestro di cerimonie, è il delegato/doppio dell'autore che introduce il lettore all'interno della sarabanda narrata nell'albo. Albo che è ciò che si definisce un fix-up, una raccolta di storie, tre nello specifico, tenute insieme da un tenue raccordo. 

Si entra quindi nel vivo dello spettacolo grazie alla semplicissima e al contempo geniale idea di utilizzare proprio i colori come argomento dei tre racconti. Racconti che vertono su vere e proprie ossessioni maniacali, fino a conseguenze estreme, scatenate dalla percezione dei colori o dagli effetti di essi sulla psiche e i comportamenti umani. I racconti, in sé piacevoli e abilmente narrati, hanno comunque un rilievo minore rispetto al puro gusto di parlarsi addosso di Castelli e specularmente di Martin Mystère. Di questa inclinazione pletorica il miglior Castelli ha fatto una vera e propria arte, di cui è per altro l'unico depositario: laddove altri autori fanno del personaggio un logorroico noioso, impacciato e saccente, il suo creatore usa tale logorrea come un raffinato bulino da scrittura, flessibile e preciso, che gli permette di fornire lunghe spiegazioni dando spettacolo, di stemperare noia e saccenza nell'autoironia, di spezzare la tensione drammatica con una battuta; infine di sfoggiare il proprio virtuosismo nelle parole e nell'erudizione senza dampyreggiare. È una questione di sfumature, di nuances oserei dire: la levità di scrittura del Castelli degli anni '80 e '90 è magari in un avverbio, o in un ammiccamento tradotto con chiarezza in immagine da Giancarlo Alessandrini; una levità spumeggiante che rende leggere, senza che divengano mai frivole o scadenti, storie che altrimenti risulterebbero pesanti fino all'illeggibilità. E al di là dei molti ulteriori difetti, le sue storie più tarde perdono quella brillantezza divertita e sottile avvicinandosi sempre più ai veri e propri macigni prodotti da alcuni degli scrittori che hanno firmato le storie di Martin sulla falsariga del suo creatore: Paolo Morales e in misura minore Vincenzo Beretta, i soli che abbiano scritto un Martin Mystère del livello di quello castelliano dei primi quindici, vent'anni anni circa, hanno battuto strade stilistiche diverse (anche qui, Morales più di Beretta).
 
Alfredo Castelli
Le tre storie sono dunque un pretesto, ancorché di superba fattura, per far fare passerella al personaggio e al suo mondo, ai suoi stilemi, alle sue fonti di ispirazione. Nella breve partitura di un albo Castelli condensa quella tensione spirituale che è la curiosità per l'ignoto, per il misterioso, per il bizzarro, per l'inquietante, il destabilizzante e l'inaspettato. Per il paradossale. Allucinazioni, sogni, incubi o proiezioni di futuri possibili che siano, i tre racconti compendiano questo universo narrativo proiettandolo sul lettore con il brio abituale di Castelli esaltato dal sottile segno elegante di Alessandrini, reso vivido dalla colorazione di Laura Battaglia che una volta tanto dà pieno senso all'occasione celebrativa.
 
Non è però del tutto corretto affermare che i racconti abbiano in fondo un rilievo minore rispetto al piacere della celebrazione e alla civetteria di dar vita a un galà per la serie e il personaggio. Il terzo racconto, per altro il più lungo, non è solo una gustosa storia d'occasione ma rappresenta senza dubbio uno spicchio, e non meno uno specchio, dell'anima del suo autore. È il Castelli grande amante e profondo conoscitore dei fumetti e in generale della cultura popolare che celebra il personaggio più importante della sua carriera rielaborando e rendendo omaggio a una delle più belle storie a fumetti del '900: Paperino e il mistero degli Incas di Carl Barks. 
Da quel maestro del racconto che è, Alfredo non si limita a omaggiare o, peggio, vampirizzare il capolavoro barksiano, e pur seguendolo praticamente passo passo, lo rende una perfetta avventura mysteriosa - o meglio una fantasia, una divagazione. Una variazione su un tema del Maestro dell'Oregon. Senza sfigurare minimamente. Traslando dalla geometria alle lunghezze d'onda dello spettro visivo il casus belli che metteva nei guai i paperini, Castelli imbastisce un racconto travolgente, a tratti farsesco ma capace di virare improvvisamente nel malinconico, nel riflessivo, proponendo considerazioni forse ovvie ma ugualmente non banali e comunque dolorose, e che persino sfiora toni quasi lirici nella storia narrata dall'indigeno Manco Tepac ai suoi compagni di prigionia Martin e Java.

Per me come per tanti nati dal dopoguerra fino a ridosso degli anni '70, Barks è stato un tassello
fondamentale per la crescita personale e la costruzione di un gusto estetico che coniugava in piena armonia leggerezza e profondità, complessità di trame e semplicità di forma, eleganza narrativa e grande racconto popolare; ritrovare su quelle di Martin Mystère le pagine forse più belle dell'Uomo dei Paperi mi riconfermava quella fratellanza di spirito che il personaggio mi aveva fatto provare da subito con le sue atmosfere e trame che pescavano in ogni mare dell'immaginario, dell'immaginazione, della conoscenza. Ma che soprattutto, allora erano sempre così dense di quella linfa vitale della coscienza che è la curiosità.

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